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EQUILIBRI RIGOROSI

NELL’OPERA DI GIORGIO VALVASSORI



di Giorgio Bonomi



Aequam memento rebus in arduis

servare mentem1




Solitamente il concetto di “genius loci”2 è usato quando si parla di un’opera, singola o complessiva, di un autore, nel caso invece di Giorgio Valvassori ci pare più adeguato al suo “carattere”, che certamente ha influenza sull’attività artistica, ma non tanto da condizionarne contenuti e forme. Ci riferiamo alla “friulanità” di Valvassori, pensando ad una terra “dura”, da un lato, e al suo carattere schivo, dall’altro. L’artista infatti ha praticato e pratica l’arte come profonda esperienza, non solo e non tanto conoscitiva ed emozionale, ma proprio di vita3.

Quindi una vita da “friulano”, che significa riservatezza, fastidio per le luminarie della ribalta, della medianicità forsennata, non certo isolamento, ignoranza, indifferenza per l’altro e per l’altrove. Anzi nascere e soprattutto scegliere di vivere e operare a Gorizia, terra di confine – nel recente passato anche storicamente e politicamente “difficile”, quando non drammatico –, ha avuto grande influenza sul suo fare, oltre che sul suo essere. Non a caso afferma: “Nel mio caso il confine definisce delle regole ma non separa. Il confine serve per l’immaginario, è un viaggio nel sogno, è come attraversare una soglia che ci conduce verso il non conosciuto, verso nuove esperienze. È una terra di nessuno dove la tua identità è rimessa continuamente in discussione. È una zona di transito, di mutamento interiore contrapposta alla prevedibilità del quotidiano. È una zona dove ci si illude che tutto sia possibile”4.

Con questa premessa, ci pare che si possa ora meglio cogliere il lavoro di Giorgio Valvassori. Questo, da sempre, si è articolato sulla dicotomia, a cominciare da quella tra natura e artificio, cioè i suoi lavori sono costituiti da elementi “naturali” (tronchi d’albero, per esempio) e/o da elementi “costruiti” (con vari materiali, a loro volta naturali o sintetici), così che sfugge, consapevolmente, ad una definizione, o classificazione stilistica, univoca: né naturalista né astratto costruttivista. Da qui possiamo partire per individuare tutta una serie di ulteriori dicotomie: leggerezza e pesantezza, geometria e informale, astrazione e figurazione, riflessività e intuitività, ma anche serenità e drammaticità, concettualità ed artigianalità e così via. Ed è facile rintracciare una forte coerenza – concettuale, emotiva e formale – nell’ormai più che quarantennale percorso del Nostro, anche se lui la rifiuta: “[Dopo il 1982] il mio lavoro si è orientato verso un’idea di arte che non teneva conto della ‘coerenza’, intesa come soluzione di un problema formale in cui la riconoscibilità dell’artista si identificava nell’opera. Invece mi facevo prendere dai luoghi dove esponevo (all’aperto o chiusi) e da essi cercavo intuizioni e ricevevo stimoli per costruire i lavori da esporvi”5.

Ecco, qui abbiamo un ulteriore elemento della poetica di Valvassori, il rapporto tra opera e spazio: per cui, se è vero che quasi tutti i suoi lavori sono eseguiti tenendo conto del luogo dove saranno collocati, è anche vero che questo viene da quelli completamente modificato, realizzando così6 uno “scambio simbolico” o una “corrispondenza di amorosi sensi”, tra spazio dato e opera costruita, tali che, nella sintesi dell’incontro, entrambi diventano e si presentano diversi dalla situazione originaria, essendo ora qualcosa di più e di altro. Questo perché l’esposizione (in galleria o all’aperto o in spazi pubblici) è un felice equilibrio in cui se predomina l’uno o l’altro fallisce lo scopo, e la finalità, dell’esposizione stessa. Al qual proposito è stato egregiamente notato che l’artista “non fa un’arte d’ambiente bensì un’arte di pensiero, che dialoga con i materiali cui è legato da affinità elettive”7.

Ecco, i materiali: Valvassori li preleva, li lascia naturali, li manipola, li trasforma, cioè può servirsi di tutte le possibilità insite nelle sue mani; mani che amano il lavoro “artigianale” che, naturalmente, viene sempre – a livello cronologico ma anche logico – dopo il progetto, vale a dire dopo il “concetto”, quell’idea che gira e rigira nel cervello e, potremmo dire, in tutti i cinque sensi dell’artista, fino a che non trova soluzione nel fare e nel manufatto finale.

Valvassori rivendica, a ragione, la definizione di “concettuale” alla sua arte, e non già, al di là di alcuni punti di contatto e di similitudine, quella di “arte povera”, ma non accetta le estremizzazioni di molto concettualismo, soprattutto di marca americana, che, poiché l’arte deriva dall’idea, si ferma a quell’idea o, al massimo, ad un progetto, più o meno elaborato. L’artista friulano, invece, proprio perché ha dell’arte un alto concetto, che non può non essere legato al fare8 e all’oggetto realizzato, pena la non esistenza stessa dell’arte, ritiene fondamentale anche questa, per così dire, seconda fase del percorso che conduce all’arte (come opera e come es-posizione).

Detto ciò, è facile comprendere come Valvassori che si esprime soprattutto con la scultura e l’installazione sia anche un bravissimo disegnatore. Il disegno, la mano che fa scorrere la matita o la penna sul foglio bianco, è una tecnica e una pratica – ma spesso è una vera e propria poetica – che ha affascinato numerosi artisti, pittori, scultori, architetti, per cui i disegni di Valvassori, oltre ad avere una funzione di “progetto esecutivo”, assumono una loro forza autosufficiente tale da diventare opere autonome e fondate a tutti gli effetti.

È per questo che le sue mostre abbisognano di entrambe le tipologie di opere: disegni al muro, sculture/installazioni a terra, ancora una volta una dualità che si pone con estrema “affettuosità” e “intelligibilità” reciproche, accresciuta dalla stretto “abbraccio” tra luogo che viene “colmato”, in orizzontale (il suolo) e in verticale (i muri), dalle opere le quali, a loro volta, sono “accolte” e “protette” da quelle pareti e pavimento.

Come per il disegno Valvassori ricorre a tutti gli strumenti necessari per esso, quali matita, inchiostro, china, grafite, carboncino, pastello, spesso mischiandoli, così per le sue sculture/installazioni si serve dei materiali più vari, da quelli naturali a quelli più artificiali, a quelli elaborati, per cui abbiamo, ricorrenti, il legno e il metallo (ferro, rame, piombo ed altri), la carta, semplice o lavorata o come l’ha trovata, la stoffa e la terracotta, la vetroresina e la tela, la gomma e il carbone, il bitume e altri ancora: insomma, questi sono tutti elementi del suo alfabeto costruttivo che, con rara coerenza, lo accompagnano all’esecuzione del suo progetto.

Qui, poi, interviene la sensibilità emotiva che porta l’osservatore a cogliere primariamente gli elementi più evidenti, quelli immediatamente riconoscibili da chiunque, come la paglia, un tronco d’albero, una corda, il ferro, ma poi la riflessione completa questa prima percezione, così da permettere la piena comprensione del/i significato/i delle opere.

Certamente in tutto il lavoro di Valvassori prevale un elemento di inquietudine, di drammaticità, come avviene nella maggior parte dell’arte di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Il tronco d’albero può avere delle scabrosità o dei chiodi i quali possono anche affiorare da un gradevole tappeto di sabbia; abbiamo delle “gabbie”, delle forme “imprigionate”; delle stoffe compresse e strizzate con forza. Possiamo citare, solo per fare qualche esempio, la Gabbia del 2002, struttura che ritroviamo a Cormons e nella quale è rinchiuso uno dei vari “animaloidi”, realizzati in carta pesta e colorati in nero, che, al contrario, “girano” liberi nella stanza; Help del 2000 in cui un uomo annaspa, chiedendo appunto “aiuto”, prigioniero di una struttura “gradevole” nella sua rotondità; in altre opere la “tragedia” appare più mediata ma certo non meno grave, come il Funambolo del 2006 che presenta una scultura rappresentante l’equilibrista sul davanzale di una ipotetica finestra, ma senza il filo davanti, per cui si può intuire la sua caduta nel vuoto, senza rete; come nella improbabile Zattera del naufrago del 1988 che non sembra uno strumento molto adatto al salvataggio, data la sua precarietà oppure in Inferriata dello stesso anno che denuncia la possibilità e la condizione della prigionia.

Ma il dramma, in Valvassori, fedele alle sue caratteristiche – estetiche ed antropologiche – non è mai urlato, mai violento, al contrario trova sempre un punto di equilibrio, come i materiali e le strutture costruite dei suoi lavori, in cui la forza e la tensione, sempre presenti, trovano un equilibrio non precario e quindi carico di speranza, proprio perché la vita, a sua volta, si regge sempre su un suo equilibrio che, sebbene nella realtà sia spesso precario, diviene stabile proprio con la forza dell’accettazione virile e della consapevolezza: ed è questo il messaggio più efficace che l’arte di Giorgio Valvassori ci comunica.


1 “Ricorda di mantenere equilibrato l’animo nelle situazioni difficili” (Orazio, Odi, II, 3, 1-2).

2 Il concetto di “genius loci” (il genio, la divinità del luogo) proviene dalla religione romana antica ma poi è passato alle discipline architettoniche per indicare l’influenza del territorio – inteso come un insieme di elementi naturali, culturali, storici, di costruzioni eccetera – sull’opera di nuova realizzazione.

3 Nella bella intervista di Laura Safred a Giorgio Valvassori, A modo di introduzione, in G. Valvassori, Riposare lo sguardo, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2002, p. 19, l’artista afferma: “Credo, citando Cage, che l’arte è una sorta di condizione sperimentale in cui si sperimenta il vivere”.

4 Ibidem, p. 17.

5 Ibidem, p. 15.

6 Prelevando i termini da J. Baudrillard e da U. Foscolo, ma più come significanti che per il loro significato.

7 Laura Safred, op.cit., p. 18.

8 Ricordiamo che il termine per definire l’arte, quale noi lo intendiamo, per gli antichi Greci era “téchnē”.